Mi sento strana rispetto a questa situazione.

Che valore diamo a quello che la pandemia ci sta facendo perdere?

Prendiamo gli affetti, per esempio, io vivo lontano dai miei genitori da anni e sono abituata ad abbracciarli solo una volta ogni tanto, ma adesso è diverso. Ora so per certo che, anche se volessi, non potrei farlo. 

Dunque penso, che è forse questo che ci lascia vivere sereni: la consapevolezza di poter avere un contatto, e non il contatto stesso. Ci rassicura la consapevolezza di possedere o di poter utilizzare qualcosa, più che utilizzarla veramente. L’azione, che è il fulcro del pensiero riguardo un certo argomento, diventa strumento anziché oggetto. 

È relativa, non è imprescindibile.

Ed è quello che porta a dare quanto sopra per scontato. 

Il pensiero adesso che più di tutti mi tiene il morale alto, alimentando i pensieri positivi, motore di motivazione per superare quella che nel 2020 forse è tra le privazioni più grandi alle quali potevamo essere sottoposti, è proprio l’idea che questo avrà una fine. 

Non concepisco la condizione che stiamo vivendo come permanente, pertanto la sopporto. Un po come quando ero atleta: affrontare le difficoltà e la fatica è un po più semplice se ne conosco una data di scadenza. Forse in questa condizione siamo tutti un po atleti, o almeno, io rivivo parte di quelle sensazioni che provavo da ginnasta, in ritiro.

La connotazione della mia considerazione è tutt’altro che negativa, per questo vorrei fare degli esempi. Vediamo quali possono essere le caratteristiche che accomunano la quarantena al ritiro di un atleta di élite…

Intanto il concetto esteso di famiglia. Vivere sotto lo stesso tetto ma frequentare regolarmente ambienti diversi, conoscere persone nuove, prendersi la libertà di cambiare aria di tanto in tanto è ben diverso dallo stare insieme sempre e comunque, senza possibilità di scelta, senza poter decidere di passare qualche giorno con altre persone o in un’altra città. Potrebbe sembrare una forzatura, un sacrificio, ma in realtà è qualcosa che unisce profondamente e che crea un legame familiare diverso, acceso e a tratti morboso, di fiducia e di piena conoscenza. 

Si diventa indispensabili l’uno per l’altro inevitabilmente, bisogna ricoprire tutti i ruoli, esserci diventa bello, non è più un dovere morale ma una necessita reciproca. Conseguenza logica di quanto appena detto è ciò che definirei come la seconda caratteristica comune, ovvero il concetto di squadra.

Proprio come degli atleti, oggi stiamo tutti lottando insieme per il medesimo obiettivo comune. La motivazione, la grinta e l’ispirazione possono arrivare da chiunque e ognuno di noi è portato a dare il buon esempio, a infondere fiducia in chi lo osserva. Questo meccanismo ha il grande potere di creare unione e solidarietà, fa si che i membri di una squadra, con le dovute eccezioni, certo, mettano anche da parte certe questioni per far funzionare la macchina e non frenare l’ingranaggio che ha lo scopo di vincere e raggiungere un obiettivo che è di tutti e per tutti uguale.

Un’altra cosa che trovo incredibilmente simile è la gioia per le piccole cose, per i dettagli. Quando ero ginnasta ricordo che, a periodi, trovavo delle piccole ricompense che mi rendevano felice e mi facevano affrontare meglio la monotonia degli allenamenti. È incredibile come un atleta può gioire per cose apparentemente poco entusiasmanti e capisco che chi non ha vissuto certe cose non può comprendere l’esaltazione per un certo gusto di gelato, per un nuovo tipo di merendina o per un particolare giorno della settimana dove, anche solo per mezz’ora, succede qualcosa di diverso.  Piccole cose che in realtà danno una sensazione di appagamento tutt’altro che banale. È un po quello che succede adesso con la pizza del sabato o l’uscita di una nuova serie tv, cose che nella frenesia della solita vita avremmo certo apprezzato meno, o trattato con maggior superficialità, colpevole certamente il tempo, che non ci basta mai…

Leggo tante frasi sull’importanza degli abbracci, sulla voglia di toccarsi ancora. Questo mi porta a chiedermi:  che cosa è un rapporto umano? Mi risulta estremamente difficile concepire che ci siano modi differenti di percepirlo, eppure è cosi. Mi affascina la differenza con la quale diversi soggetti vivono il contatto, il bisogno di stare insieme, è una di quelle cose che razionalmente capisco ma che internamente non comprendo, in quanto non riesco ad interiorizzare e riprodurre una sensazione diversa da quella che provo naturalmente quando si parla di relazioni tra individui.

Io la sento intensa, fortissima. Per me ogni scambio verso l’esterno con una persona ha un valore molteplice che mi coinvolge in maniera piuttosto totalizzante.

Entrare in contatto con qualcuno significa mettersi alla prova, sempre e comunque, anche solo quando conversi con una persona cerchi di capire chi hai di fronte e lo studi con tutti i mezzi che possiedi. Lo facciamo tutti, chi più chi meno, ma è spontaneo. Al principio serve banalmente per trovare un canale di comunicazione, per dare una buona impressione di se e per ottenere quello che si cerca alle volte. Poi entrano in gioco altri fattori come la curiosità, l’empatia, l’affetto e la gioia di condividere.

Sono ottimista di natura, è vero, e ho sempre cercato di infondere positività nella mia squadra attraverso piccoli o grandi gesti quotidiani, sguardi, parole. Ed è per questo che voglio essere positiva anche adesso! Siamo semplicemente in ritiro, ci stiamo allenando duramente per vincere la nostra gara. Ci sono diverse prove nel percorso, sbaglieremo e impareremo dagli errori commessi, cresceremo come squadra e impareremo a fidarci uno dell’altro per tirare fuori le caratteristiche migliori di ognuno e metterle a servizio del gruppo e alla fine, giocheremo la nostra Olimpiade più pronti che mai!