Penso esistano due tipi di sconfitta: quella morale e quella di classifica.
Benché la più compromettente, a livello pratico sia la seconda, sono in grado di lasciare un segno profondo entrambe in egual modo. Anzi: forse quella morale è addirittura più subdola, in grado di insinuarsi e lasciare un segno forte al suo passaggio.
Tutti gli atleti in procinto di partecipare a una gara, soprattutto di alto livello, si preparano proprio per non essere sconfitti.
Eppure una classifica c’è sempre ed è inevitabile.
Qual è quindi la cosa giusta da fare? Prepararsi all’eventualità che si possa essere sconfitti nonostante tutto l’impegno e la dedizione nella preparazione, oppure pensare fortemente di potercela fare ed, semmai, fare i conti dopo con un’eventuale delusione? Schema libero: non c’è una cosa realmente giusta da fare. Oltre a tutto il lavoro tecnico necessario per superare una prova c’è un lavoro parallelo psicologico altrettanto importante per affrontare il prima, il durante e il dopo di una gara.
È strano perdere quando ti prepari da mesi per una prova; è strano sbagliare e compromettere quindi la tua gara quando ti alleni otto ore tutti i giorni, eppure… A me è successo! E non è facile assimilare e razionalizzare un concetto come quello della sconfitta dopo tanto lavoro, soprattutto se quel lavoro, in quel momento, è tutta la tua vita.
Ho dei bellissimi flashback che cercherò di raccontare.Comunque andasse la gara c’era un momento ricorrente alla fine di ogni esercizio, un momento di estrema speranza – disperata direi – ma quella speranza era “reale”! E non c’è niente di più bello, a mio avviso, di un’emozione vera e reale. Aspettare la nota era un po’ come aspettare un incantesimo: dita incrociate, pensieri positivi, spergiuri… Come se tutto dipendesse dal fato, dalla fortuna. Come se la mano tenuta in un modo o nell’altro in quella della mia compagna potesse cambiare il verdetto della giuria. Insomma: cose del genere. Quel momento era terribilmente carico di tensione. Era un momento in cui le aspettative di tutte erano alte. Un momento in cui tutti, non solo noi ginnaste, aspettavano un giudizio.
Reazioni opposte poi, si susseguivano alla comparsa della nota finale sul display. Reazioni completamente diverse: la gioia, o la delusione. Quella della delusione si può definire il sintomo principe della sconfitta. È una sensazione che ci si porta dentro, come una cicatrice, per molto tempo. Il che non è sempre un male in realtà. Una volta ho descritto la paura, mi rendo conto che molti concetti sono ambivalenti, e li ritrovo ora che mi concentro per mettere nero su bianco cosa significhi per me “sconfitta”.
Il fatto è che per non essere sconfitti occorre non avere paura.
Non solo paura di una gara, di un errore, di un particolare esercizio, ma nel suo senso più ampio. Una paura che sconfigge è quella che ti rende incapace di progredire, che ti preclude la possibilità di cogliere una grande occasione o di sfruttare un vento favorevole. Queste sono sconfitte di spessore: quelle che ti fanno dire “potevo fare meglio”.
Ripercorro la mia carriera agonistica per cercare di individuare effettivamente le sconfitte più pesanti che ho vissuto. Molte di queste le colloco agli albori del mio percorso da ginnasta, quando ancora la vita non mi aveva riservato niente di troppo spiacevole; quando ancora ero ingenua, troppo ottimista e forse fiduciosa. Quelle sconfitte sono state i mattoncini della mia corazza; sono state fondamentali per creare le armi delle mie battaglie “da grande”.
A questo punto mi è impossibile non pensare a Rio.
La mia lunga, faticosa, travagliata, meravigliosa, ricca, speciale carriera da atleta si è conclusa proprio con una sconfitta. Era esattamente quello che non speravo. Era proprio quello che, dopo tutti questi anni e dopo tutto, io e la mia squadra con le nostre allenatrici, non ci meritavamo. Ha fatto male: è stata una sconfitta più dura delle altre, era il momento, era il “nostro” momento, ma è andata così e ho provato a guardare avanti e indietro allo stesso tempo, per pesare le emozioni e i fatti sulla stessa bilancia, per capire cosa significava quel quarto posto nella mia vita, e ho capito.
Ho compreso che quella è stata una sconfitta di classifica: compromettente, quindi, ma emotivamente non così tagliente come quella morale, che certamente non apparteneva alla mia squadra. Non credo, quindi, di essere stata sconfitta. Se mi fossi arresa prima, negli anni, se avessi ascoltato chi mi consigliava di lasciar stare, chi mi diceva che la ginnastica non mi avrebbe regalato nessuna gioia, se avessi mollato, se non ci avessi messo l’anima in quello che facevo, in quel caso si, sarebbe stata una terribile ed irrimediabile sconfitta.
L’Olimpiade di Rio è stata una sconfitta “sui numeri”, ma al tempo stesso ha rappresentato – e rimarrà per me – una grande conquista. La mia vittoria personale.